Archive for November 2015

[Rubrica] Pesca a Fondo


    • Pesca a Fondo

      La pesca a fondo è forse una delle più antiche tecniche di pesca da praticare e si distingue per una certa semplicità teorica. Difatti, le basi consistono nell'utilizzare una piombo a mo’ di zavorra sul fondo della lenza, permettendo all'amo, sufficientemente camuffato dalle esche, di restare adagiato sul fondo in attesa che un pesce in cerca di cibo si allarmi.
      I pesci più comuni da prendere con questa tecnica sono i grufolatori, in particolare i ciprinidi, come la carpa, la tinca, il barbo e il cavedano. Ma è possibile catturare anche anguille, pesci gatto e nei laghetti le trote.
      Uno dei requisiti più importanti per praticare questa tecnica è la selezione di un'attrezzatura robusta, poiché nelle profonde buche dove si andrà a pescare, la taglia dei pesci può risultare decisamente generosa. I monofili raggiungeranno diametri fino a mezzo millimetro o più mentre le canne da pesca, generalmente non più lunghe di 4,5 metri, saranno caratterizzate da cimini colorati molto sensibili che permetteranno al pescatore di vedere la mangiata del pesce. Inoltre la capacità di azione della canna, cioè il peso del piombo da aggiungere alla lenza in modo da fare lavorare al meglio la canna da pesca nel lancio, varierà tra i 20 grammi fino ai 200 per la pesca a fondo al mare. Oltre ai cimini colorati esistono altri strumenti che permettono al pescatore di percepire la mangiata. Uno di questi è il campanellino, che, stretto sulla punta della canna, garantisce un suono ad ogni toccata. Oggigiorno nei negozi specializzati sono disponibili anche segnalatori elettronici di abboccata che rendono più semplice il lavoro del pescatore. Infine anche il mulinello dovrà essere di discrete dimensioni così da poterci caricare buone quantità di filo. Si tratta quindi di una tecnica di attesa, dove la canna da pesca sarà appoggiata su di un apposito picchetto munito di forcella mentre il pescatore dovrà essere attento ad ogni movimento della sua canna oppure dedicarsi ad altro in attesa di una risposta dal campanello o dall'avvisatore acustico, ragione per cui si tratta di una pesca facilmente praticabile anche con la famiglia o con compagnie di non pescatori.
      Le esche per praticare questa tecnica non si distinguono molto da quelle della pesca con il galleggiante: bigattini, mais, formaggio, polente di vario genere e i diversi frutti di stagione sono quindi le scelte migliori.
      Da questa tecnica ne sono nate negli ultimi anni moltissime varianti, come il carp fishing, il feeder, il
      ledgering e per il mare il surf casting, a dimostrazione di come rimanga una delle tecniche più redditizie in termini di catture. Tutte queste tecniche, benché più selettive, complesse e caratterizzate, partono sempre dalla premessa iniziale. Un peso che porti l'esca sul fondo e lì rimanga.
      Per qualsiasi ulteriore informazione sulla tecnica e sulle attrezzature più idonee a cominciare questa tecnica non esitate a venire a trovarci in Via Sacchi 50 da Dimensione pesca.

      aritcolo di S. Terrando
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Torino Città Magica

    • Torino Città Magica

      a cura di Gabriele Argirò (dottore in Scienze dei Beni Culturali)


      Torino non è una città come tante. Torino è la città. Torino è la nostra città, è un pezzo di noi, è la nostra casa, come scrive Giuseppe Culicchia nei suoi testi. Essa è ricca di sfaccettature, possiede molte anime; ogni quartiere sembra un piccolo paese a se stante e a palazzi signorili e villini settecentesci si alternano grattacieli e palazzi ultra moderni: Torino lascia senza fiato.
      È una città narrante: ogni palazzo, giardino, monumento, pietra, aiuola racchiude una storia purtroppo
      sconosciuta ai più. Peccato non poter percepire quel pullulare di anime che la ravvivano come fosse una, nessuna centomila: c'è quella austera e sabauda, quella razionalista, quella moderna, quella esoterica e magica.
      È su quest'ultima che vorrei concentrare l'attenzione del lettore.
      Secondo la tradizione Torino è uno dei centri più esoterici e magici del nostro mondo. La letteratura in merito sostiene che essa sia il vertice di non uno ma ben due triangoli magici; quello della “magia bianca” e quello della “magia nera”. Il primo, quello della magia bianca, cioè quella buona, benefica, che fa del bene alle persone, si compone di Torino, Praga e Lione. Il secondo, il triangolo della magia nera, usata per scopi malvagi e per fare del male, è composto dalle città di Londra e San Francisco e trova il suo vertice di chiusura proprio a Torino.
      Questi due triangoli tra l'altro hanno i vertici quasi attigui, infatti sono divisi a mala pena da 1,5 km, infatti solo via Garibaldi, la via pedonale più lunga d'Europa, li divide. Ma scendiamo più nello specifico, iniziamo a parlare del primo triangolo, quello della magia bianca. La tradizione esoterica vuole che il centro di questo triangolo si trovi in un punto ben preciso, ovvero la cancellata di Palazzo Reale, quella che divide Piazza Castello dalla Piazzetta Reale e più precisamente nel mezzo esatto della cancellata, proprio a metà tra le statue dei Dioscuri a cavallo, Castore e Polluce. Questo, si racconta essere il punto più magico di tutto il triangolo; sembra che i visitatori, sgombrata la mente da ogni pensiero, ne traggano benefiche energie e forti vibrazioni positive che riabilitano lo spirito e il corpo e offrono rinnovata forza e vitalità per affrontare la quotidianità. Per molti sarà solo una coincidenza o semplice suggestione ma in Piazza Castello, comunque, si respirano veramente venti di positività e benevolenza. La piazza è una delle più maestose, delle più grandi della città e sicuramente anche l'architettura dei palazzi, le scelte dei colori e dei materiali di costruzione non sono state frutto della casualità ma di un disegno intrinseco ben preciso: le facciate dei palazzi Reale e Madama di marmo bianco accostate ai mattoni a vista della Prefettura e del Teatro Regio fanno riecheggiare e amplificano in modo esponenziale questa aura magica che si respira in tutta la piazza.
      Ma ora spostiamoci verso Ovest, attraversiamo Via Garibaldi, anticamente detta Dora Grossa, e arriviamo in un'altra piazza affascinate e ricca di simboli più o meno chiari e decifrabili. Questo punto rappresenta il triangolo oscuro, quello della “magia nera”; qui in Piazza Statuto il Triangolo trova il suo vertice principale. Nel centro di questa piazza si trova una piccola aiuola al cui centro venne eretto nel 1808 un obelisco con un astrolabio sulla sommità, ad opera del celebre geofisico matematico piemontese G.B. Beccaria, sulla lunghezza di una porzione di meridiano terrestre (il Gradus Taurinensis) e il suo incrocio con il 45° parallelo. La tradizione vuole che alla base di questo seppur piccolo, inosservato ma importantissimo monumento, si trovi un tombino attraverso il quale si possa accedere alle porte degli inferi. Da sempre Piazza Statuto è stata una piazza misteriosamente sfortunata e molto cupa, colpa anche del suo orientamento geografico, infatti si estende ad Ovest ovvero il punto cardinale in cui tramonta il sole e nascono le tenebre. Un altro fatto che di sicuro fa di
      questa affascinante piazza il centro del “Triangolo Nero” è il monumento ai “Caduti del Frejus” sormontato dalla statua del “genio alato”: secondo alcuni la statua sarebbe proprio la personificazione di Satana secondo altri semplicemente la raffigurazione dell'ingegno umano. Altro punto nefasto
      di quest'area, un po' defilato dal centro reale, è il cosiddetto Rondò della Forca, punto nel quale fino al 1863 venivano consumate attorno ad un folla trepidante le condanne a morte dei carcerati. Conoscere questa storia rende il luogo talvolta inquietante.
      Torino magica affascina, avvolge nel mistero, attrae turisti da sempre.
      Centro della magia bianca o nera: che siano coincidenze, congetture o influenze folcloristiche, resta il fatto che Torino è magica comunque perché intriga, ammalia, seduce, coinvolge tutti i sensi. Ma bisogna saperne ascoltare i suoni e le intermittenze, osservare i colori e le mille sfumature e conoscerne la storia per coglierne ogni mistero.
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La Leggenda della Zucca di Halloween | La Ruota d'Argento

    • La Leggenda della Zucca di Halloween


      Jack O'Lantern e' uno spiritello burlone che da due millenni, di notte, appare sulla Terra illuminandosi la strada con una candela ricevuta in dono dal diavolo. Affinché la candela non si spenga, Jack la nasconde dentro una zucca vuota. Quella stessa zucca che, con il passare del tempo, è divenuta il simbolo di Halloween in tutto il mondo. Ma anche nel nord Italia fino alla fine degli anni '50 si usava mettere lumini in zucche svuotate, raccontare storie di fantasmi ed accendere falò al di fuori di qualsiasi celebrazione cattolica. Ma da dove deriva la leggenda di Jack O'Lantern? Jack O'Lantern (conosciuto anche come Lantern Man, Hob' O Lantern, Fox Fire, Corpse Candle Will O' The Wisp, o semplicemente Will) nasce da una leggenda irlandese che parla di un imbranato ("Ne'erdo- well" = Non ne combino una giusta) chiamato Stingy Jack. Quest'uomo, noto giocatore d'azzardo e bevitore, durante una notte di Halloween invita il Diavolo a bere con lui nella sua casa. Dopo la bevuta escono nella notte e Jack, sempre in cerca di scommesse, sfida il diavolo affermando
      che non sarebbe riuscito ad arrampicarsi su un albero. Il Diavolo, sorridendo, salì sull'albero con facilità, e Jack incise una croce sulla corteccia. A questo punto il Demonio era in trappola a causa del simbolo sacro, e Jack gli propose un patto: il Diavolo, se voleva poter tornare a terra, doveva promettere di non tentarlo più: solo allora avrebbe tolto la croce dall'albero. Il Diavolo accettò. Quando, anni dopo, Jack morì le porte del Paradiso gli furono negate a cause dei suoi vizi. Jack si diresse allora verso l'inferno, ma il Diavolo gli impedì l'accesso per vendicarsi del tiro mancino che gli aveva giocato, ma gli diede un tizzone ardente per illuminare il suo cammino nell'oscurità. Jack mise il tizzone in una rapa (o cipolla) svuotata per farlo durare più a lungo, e prese a vagare nell'oscurità. Ogni notte di Halloween, quando le porte dell'Oltretomba si aprono, Jack torna a passeggiare in questo mondo con la sua brace ardente. Quando agli inizi del secolo ci fu la carestia delle patate in Irlanda, molti Irlandesi immigrarono in America, e portarono con loro le loro antiche tradizioni che risalivano ai tempi dei Celti. In America trovarono le zucche che si adattavano meglio ad essere intagliate rispetto alle cipolle. Da quel momento è nata la tradizionale Zucca di Halloween o appunto Jack O' Lantern.

      La Ruota d'Argento


      La vita e la morte costituiscono altrettanti aspetti della medesima condizione - l'una non può prescindere dall'altra, in un dualismo difficile da accettare fintanto che esistiamo, respiriamo e amiamo.
      Il sipario mobile che le separa era recepito dai Celti alla stregua di una ruota d'argento destinata a oscillare perennemente nel cielo. Questa ruota d'argento era in possesso di Arianrhod, Dea della morte che governava peraltro la Luna e il destino.
      Il mito: La mitologia vuole che Arianrhod fosse la figlia più potente di Danu, la grande Dea madre dei Celù. Come la Luna, il viso di Arianrhod era diafano e misteriosamente bello. Il suo compito consisteva nel condurre le anime dei trapassati al suo castello, Caer Arianrhod, nelle aurore boreali, o luci del nord. Ed è lì che i trapassati attendevano che la ruota di Arianrhod girasse, fornendo loro l'opportunità di rinascere e di vivere una nuova esistenza.
      Secondo altre credenze, il castello della Dea sarebbe stato ubicato su un'ísola abbandonata da tutti, al largo della costa anglosassone. Laggiù, lei e le sue ancelle spettrali accoglievano il ritorno a casa dei trapassati, reduci dal loro viaggio di una vita.
      Samhain: La festa di Arianrhod, Dea della morte, si celebra il 31 ottobre. Questa ricorrenza è più nota
      come Halloween, o la Vigilia di Ognissanti. In coincidenza di quella serata, il sipario che divide la vita dalla morte è più sottile che mai. E' diffusa la credenza secondo cui gli spiriti dei morti vaghino attraverso la terra per bene-dire o maledire i vivi. Per placarli, un antico rito prevedeva offerte di cibo e vino; alcuni vi fanno risalire l'usanza, attualmente in voga, di andare di casa in casa chiedendo dolci la sera di Halloween - Samhain costituisce altresì il cancello che si schiude al passaggio dell'inverno, la metà oscura dell'anno.
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[Rubrica] L'Impasto Umano: Fatti di terra, guardiamo le stelle.


    • Torino spiritualità Si è svolto a Torino, Alba e Novara
      da mercoledì 23 a domenica 27 settembre 2015
      l’11 edizione di ‘TORINO SPIRITUALITÀ’

      “L’IMPASTO UMANO”
      Fatti di terra, guardiamo le stelle.

      Siamo tutti nati nel fango,
      ma alcuni di noi guardano alle stelle.
      (Oscar Wilde)

      Questa edizione di Torino Spiritualità ha proposto una riflessione sulla natura multiforme dell’uomo e sulla misura degli “ingredienti” che lo definiscono.
      Mortale e terreno ma capace di concepire desideri immortali, l’essere umano è un impasto di fango e cielo, sempre in bilico tra limite e trascendenza, luce e ombra, finito e infinito. Ma in questa indefinitezza si trova anche la più preziosa delle possibilità: essere per noi stessi “sorpresa”, invece che conclusione scontata. Le sfumature dell’esistenza e la ricerca - insistente, documentata attraverso tesi filosofiche, letterarie, scientifiche e religiose - di una risposta netta a una domanda che arriva dritta in faccia: di cosa è fatto l’impasto umano? È il terreno dell’anima su cui ha lavorato «Torino Spiritualità», evento sparso in 30 spazi diversi a Torino e anche a Alba e Novara.
      In cinque giorni forse non si è arrivati a definire nemmeno nella teoria la composizione dell’impasto umano, quella materia - e quelle mani che dovrebbero modellarla - inseguita da questa undicesima edizione di «Torino Spiritualità», ma la platea non ha mollato mai il festival e i suoi tavoli di discussione, riflessione, preghiera e meditazione: anche quest’anno sono 45 mila le presenze alle «lezioni» sparse nella città.

      «Cosa Muove Gli Uomini ???» 

      Un interrogativo che ha a che fare con la nostra responsabilità in terra, con le reazioni che i migranti generano in noi, a dispetto di umana pietà, giustizia sociale o ragionevole compassione, con la dignità degli uomini davanti ad altri uomini.
      Una sfida, una scelta di campo, fra il timore dell’ignoto e il coraggio della comprensione. Di notevole afflusso i due momenti inaugurali alla chiesa di San Filippo e il Coro del Teatro Regio per lo spettacolo «L’imperfetta armonia»; alle conferenze di Gherardo Colombo e Vito Mancuso, e… curioso e scelto da tanti, anche in lista d’attesa, l’incontro al Parco Astronomico ‘Infini.to’ su «Le stelle rispondono» e l’appuntamento con Tolstoj al Cimitero Monumentale davanti a un pubblico numeroso.
      Enzo Bianchi ha affrontato «L’umano», il modo in cui viviamo la nostra umanità. Un giornalista-filosofo e uno scienziato hanno incrociato i punti di vista sull’idea che «La scienza fa bene (se conosci le istruzioni)»: con Luca Bonfanti e Armando Masserenti.
      Letture, commenti e dibattiti hanno dato molte risposte alle molte domande di spiritualità e di felicità che il nostro tempo vive.
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[Progettualità] Il Segreto del Paradiso

    • IL SEGRETO DEL PARADISO

      Dopo una lunga e eroica vita, un valoroso Samurai giunse nell’aldilà e fu destinato al paradiso. Era un tipo pieno di curiosità e chiese di poter dare un’occhiata anche all’inferno.Un angelo lo accontentò
      e lo condusse all’inferno. Si trovò in un vastissimo salone che aveva al centro una tavola imbandita con piatti colmi di pietanze succulente e di golosità inimmaginabili.
      Ma i commensali, che sedevano tutt’intorno, erano smunti, pallidi e scheletriti da far pietà. “Com’è possibile?”, chiese il samurai alla guida. ”con tutto quel ben di Dio davanti!”.
      “Vedi: quando arrivano qui, ricevono tutti due bastoncini, quelli che si usano come posate per mangiare, solo che sono lunghi più di un metro e devono essere rigorosamente impugnati all’estremità. Solo così possono portarsi il cibo alla bocca”. Il samurai rabbrividì.
      Era terribile la punizione di quei poveretti che, per quanti sforzi facessero, non riuscivano a mettersi neppure una briciola sotto i denti. Qui lo attendeva una sorpresa. Il Paradiso era un salone assolutamente identico all’inferno. Dentro l’immenso salone c’era l’infinita tavolata, un’identica sfilata di piatti deliziosi. Non solo: tutti i commensali erano muniti degli stessi bastoncini lunghi più di un metro, da impugnare all’estremità per portarsi il cibo alla bocca. C’era una solo differenza: qui la gente intorno al tavolo era allegra, ben pasciuta, sprizzante di gioia. “ Ma come è possibile?”, chiese il samurai. L’ angelo sorrise. “all’inferno ognuno si affanna ad afferrare il cibo e portarlo alla propria bocca, perché si sono sempre comportati così sulla terra. Qui, al contrario, ciascuno prende il cibo con i bastoncini e poi si preoccupa di imboccare il proprio vicino”.
      Paradiso e inferno sono nelle tue mani. Oggi.

      (disegno di Roberto Biolcati)



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[Rubrica] Crisantemi

    • Crisantemi


      Il Crisantemo è conosciuto in occidente con la nomea di ‘fiore dei morti’. Ma in realtà, la storia che narra della sua nascita e del suo nome gli attribuisce caratteristiche ben diverse dall’ essere un semplice simbolo funebre. Infatti, secondo la storia, un bambino di nome Cristiano, nella notte di Ogni Santi, pregò la Madonna per far sì che la madre guarisse e depose un fiore sull’altare di una chiesa, perché la sua preghiera si avverasse. L’aspetto del fiore, però, era così misero che il bambino decise di tagliuzzarne amorevolmente i petali cosicché da uno solo dei suoi petali se ne originassero altri cento e acquistasse così un aspetto più regale. La leggenda vuole che, commossa da un tale gesto, la Madonna fece guarire la madre del bambino e le donò vita per quanti petali aveva il fiore. Da quel giorno, ogni anno, quando l’autunno avanza e tutto sembra morire, fiorisce, inaspettato, nelle ultime due settimane di Settembre, il Crisantemo che, con i suoi sgargianti e colorati petali, sta a ricordarci quanto sia inaspettata e forte la vita. Ma ora conosciamolo meglio. Si tratta di una pianta perenne: significa perciò che radici e fusto hanno durata superiore a quella biennale o annuale, perciò non muoiono alla fine del proprio ciclo vegetativo, come fa ad esempio lo zucchino che è una pianta annuale.

      Ne esistono numerose tipologie, alcune utilizzate all’ interno dell’ industria dei pesticidi, essendo tossica per determinati parassiti, anche se non per l’uomo; altre invece possiedono caratteristiche officinali tipo il Crisantemo Partenio,la cui polvere, tenuta in infusione per dieci minuti e assunta più di una volta al giorno e per non più di otto mesi, è ideale contro l’emicrania; mentre un cucchiaio, in infusione per cinque o dieci minuti, di Crisantemo Americano,per tre volte al giorno, favorirà il corretto funzionamento del fegato e la sua disintossicazione. Le foglie, oltretutto, possono essere utilizzate come antifebbrile se messe in infusione per un minimo di quindici minuti. Bisogna ricordarsi però che il Crisantemo, in speciale modo il Partenio , non va assunto in casi di gravidanza, allattamento, ulcera, gastrite o se si fa uso di farmaci antidepressivi a base di serotonina oppure se si segue una terapia con anticoagulanti orali o antiaggreganti piastrinici. In ogni caso, è sempre meglio chiedere il consiglio dell’ erborista oppure del medico. Si sviluppa per stolone ovvero per propagazioni dalla radice principale che darà origine a sua volta ad altre piantine. Si può sia prendere i sementi sia acquistare la pianta già adulta dal fioraio, piantandola poi direttamente nel terreno. Ma quest’ultima pratica è sconsigliata in quanto la pianta, essendo stata coltivata esclusivamente per la fioritura, morirebbe poco dopo. La semina va praticata ad inizio primavera in un luogo dove la pianta possa ricevere sole tutto il giorno o almeno per mezza giornata ma non di meno. Durante l’inverno il vaso va tenuto in casa oppure le sue radici vanno coperte con paglia, se si trova in giardino. Non deve essere innaffiata eccessivamente nel periodo che va dalla primavera all’autunno, è sufficiente bagnare la pianta ogni qual volta il terreno risulti asciutto al tatto e non quando risulta essere ancora umido. Per il periodo invernale, invece, si può far passare anche qualche giorno in più rispetto alla frequenza con cui si effettuava l’innaffiatura d’estate. Il terreno ideale per la sua crescita deve essere molto ben drenato, soffice e ben aerato perciò, sia che si intenda sistemare il crisantemo in vaso o in giardino, è opportuno mettere una percentuale di sabbia nel terreno e una buona quantità di letame maturo, in modo che abbia gli elementi nutritivi essenziali alla crescita. Oltre al letame, da inizio primavera fino alla fioritura, la si dovrà concimare: se in giardini, con concimi granulari a lenta cessione di azoto e potassio, se in vaso, con un prodotto liquido specifico ogni quindici giorni. Se la pianta è in casa durante il periodo invernale oppure se è in giardino, occorre posizionare paglia e foglie secche sul terreno intorno al fiore. E’ un’ ottima pianta da far crescere in vaso, non troppo impegnativa, che è in grado di regalarci una stupenda sorpresa, con l’arrivo dell’ autunno e in grado di spezzare la grigia monotonia delle città.

      Chiara Vigna
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Il Tram Numero 4: un viaggio sulla metropolitana leggera.

    • Il Tram Numero 4
      .. un viaggio sulla metropolitana leggera.


      Il tram numero 4 attraversa molte zone di Torino, nelle due direzioni di andata e ritorno: da oltre corso Giulio Cesare, tagliando a metà Porta Palazzo, prosegue passando di fronte a Porta Nuova e lì imbocca via Sacchi che percorre tutta, per andare poi in corso Turati e oltre. Quasi lo stesso percorso nella direzione opposta. Io ho incominciato a prenderlo per andare alla nascente Associazione EL CID. Lo prendo a Porta Palazzo e scendo a metà di via Sacchi. Questo è il mio tratto di ‘esperienza’. Prenderlo a Porta Palazzo, in orario di mercato, è un martirio perché le persone salgono con le mani piene di borse che ti urtano le gambe. In quelle ore regna un nervosismo diffuso per la fatica dei pesi e per l’ansia di accaparrarsi un posto a sedere. E di posti a sedere non ce n’è molti, però c’è più spazio rispetto ad altri tram. Inoltre le porte rasentano il marciapiede senza grande dislivello, ideale per carrozzine per invalidi e per passeggini. Devo dire che il conducente di turno è sempre pronto a “tirare giù” una pedana apposta per le carrozzine per disabili, per cui c’è uno spazio speciale.  

      Queste sono le ore ‘calde’ in cui si trova nel tram un crogiolo di razze. Spesso gli immigrati parlano ad alta voce, senza il riserbo che in Italia ci è stato insegnato. Ma sono  vvantaggiati dal fatto che nessun italiano li capisce. Gli italiani, però devono stare attenti perché un po’ d’italiano lo ‘masticano’ tutti. Un punto a loro favore. Un po’ tutto
      il mondo è rappresentato: dai cinesi agli africani di varia ‘colorazione’, ai rumeni o slavi in generale, a chi viene dall’India o dall’America latina. Chissà se un’integrazione o una fusione sarà inevitabile. Proprio pochi giorni fa sono rimasta stupefatta! Ho visto una coppia: lui alto e biondo, lei un’africana tra le più nere coi i capelli crespi e ricci. Avevano al seguito tre bambini: una bambina sui sei anni aveva il viso color caffelatte e capelli lunghi e lisci di colore biondo cenere; un bambino sui tre anni nero coi capelli biondo dorato e ricci, sul passeggino una bambina nera di colore e di capelli come la madre. Forse l’integrazione comporterà un ‘mescolamento’ di razze. Quale sarà l’esito? Ma soprattutto: ne siamo ronti? So che ci sono i pro e i contro; e chi ci sta e chi no.

      Comunque, sembra in parte passato il periodo di contrasto verso le unioni tra razze diverse. Ma torniamo sul 4. Non sempre lo prendo in queste ore di punta. Siccome passa frequentemente,
      si spera sempre di prenderne uno che dia la possibilità di sedersi per un tratto o permetta di trovare un posto in cui badare ai propri ‘affari’. Sì, perché spesso, pur essendoci molta gente, ognuno cerca di ricavarsi un ‘angolino’ dove, armato di cellulare, inizia una silenziosa attività, non si sa se commerciale, affettiva, ludica o altro fatta di navigazioni internet, sms, WhatsApp, posta elettronica e quant’altro. Tutti zitti, i cellulari mandano suoni e segnali che a volte fanno riconoscere la provenienza etnica. Bisogna dire che ci sono luoghi in cui il 4 si svuota, come a Porta Nuova ma per dare posto ad altrettanti che salgono. Il momento di scendere è più duro di quello di salire. Dopo aver guadato attraverso una fiumana di gente, devi fare i conti con quelli, per lo più giovani, che hanno trovato il loro ‘angolino’ proprio a ridosso degli stipiti delle porte di entrata e di uscita. Chiedi: “Scendete?”, “No”. Dici: “Io dovrei scendere alla prossima”. Con svogliatezza, senza guardarti rispondono: “Si, poi la faccio scendere”. Alla fermata fanno un gioco di equilibrio: tenendosi allo stipite, scendono
      e poi rientrano. Sempre così ad ogni fermata, tanto che i più evitano di chiedere , è diventata una consuetudine.

      Un tram abbandonato a se stesso? No, anzi! A dare un po’ di sicurezza a tutti quelli che hanno la coscienza a posto, cioè che almeno hanno pagato il biglietto, all’improvviso, quasi su ogni 4, spuntano i controllori della GTT che in molti incutono timore per la loro fermezza e il loro rigore. Vengo a sapere che sono stati i cittadini stessi a richiederne la presenza costante. Però, nonostante la presenza di questi ‘angeli custodi’, la Circoscrizione segnala ancora un certo numero di scippi.

      Patrizia Stroppiana
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A Torino le luci sono d’artista!

    • La singolare illuminazione compie 18 anni
      A Torino le luci sono d’artista

      Torino è famosa è celebre e cattura un sempre maggiore interesse per le costruzioni architettoniche che hanno accompagnato la sua lunga e gloriosa storia di capitale sabauda, di cui la Mole Antonelliana è il simbolo per eccellenza, per l’azienda automobilistica, che sino allo scorso anno portava nella sua sigla il nome della città, per le sue squadre di calcio e per lo sport in generale visto che in questo 2015 è la Capitale Europea, per le tante eccellenze soprattutto in tante microimprese dell’agroalimentare. A tutto questo, a buon diritto, si aggiunge un aspetto artistico e culturale che si sta affermando sempre più.

      Si tratta di Luci d’Artista, una iniziativa tanto bella, quanto unica in Italia, che ha già fatto scattare tentativi di imitazione che come tutte le coppie non hanno avuto risultato.

      Due sono le grandi novità dell’edizione 2015. Una di tipo cronologico, visto che la rassegna compie 18 anni e l’altra di tipo geografico, visto che la presenza delle Luci d’Artista spazia in gran parte del territorio torinese, con 24 installazioni luminose, ben sei in più dello scorso anno. E questo oltre a rendere più sfavillante la città, fa si che anche quartieri meno centrali possano arricchirsi di questa straordinaria iniziativa, che rende la stagione invernale meno cupa.

      Le Luci d’Artista sono accese dal 31 ottobre e conferiscono un fascina particolare e seducente alle strade di Torino che le ospitano; per gli appassionati di numeri ricordiamo che sono 1.344 le lampadine che costituiscono le costruzioni artistiche.

      Ognuna di esse meriterebbe una scheda descrittiva, o anche solo una sintetica citazione. Però pensiamo che più di avere una nostra descrizione tecnica, le Luci d’Artista meritino di essere visitate ed ammirate, magari mentre si passeggia per le strade del centro di Torino. Una citazione particolare la me-rita "Migrazioni", ideata e realizzata da Piero Gilardi, direttore del Parco Arte Vivente di via Giordano Bruno.

      E’ installata nella Galleria Subalpina e le sue luci sono sistemate su fili che sono sorretti dalla particolare e bellissima balconata. E’ quest’opera, che si compone di un volo migratorio di una dozzina di pellicani, la più attesa e dunque la vedette di questa edizione.

      Come doveroso tributo all’ Anno internazionale della Luce, voluto dall’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite,c’è la suggestiva creazio-ne "Mattang lucente - Rete celeste di Gaia". opera che si fa ammirare in piazza Castello.

      Luci d’Artista è un forte richiamo culturale-turistico, ma anche il modo tutto torinese per celebrare il Natale e le festività che lo precedono e quelle che ci porteranno nell’anno nuovo.
      Invitiamo tutti i lettori ad ammirare le luci e a fotografarle. Se vorranno inviarci delle immagini, selezione-remo le più significative per pubblicarle sulla prossima edizione della pubblicazione.

      Il direttore
      Mel Menzio
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I Gialli di Porter: Morte di un Giocatore di Golf (2° Puntata)

    • I Gialli di Porter

      Pubblichiamo la seconda puntata del giallo “Morte di un giocatore di golf ”, il cui cadavere è stato rinvenuto ai margini dell’autostrada che solitamente i torinesi utilizzano per raggiungere le località di villeggiatura della Liguria. Dopo accurate indagini gli inquirenti, guidati dall’ispettore Bellon e dal pm Bellini riescono a risalire alla sua identità si tratta di Silvano Foggini. Di lui si sa poco, se non che viveva a Roma, era scapolo e pare senza amici. Gli unici indizi emersi sono che faceva il fotografo ed aveva la passione per il golf. Ma sarà proprio cosi? Lo sviluppo delle indagini ci svela sorprendenti particolari, partendo da una strano fatto successo nell’albergo torinese, nei pressi di Porta Nuova, dove aveva preso una stanza.

      MORTE DI UN GIOCATORE DI GOLF

      2° Puntata



      "E' incredibile Bellon. Un tizio viene, dice che un cliente ha dovuto partire e gli consegnano i suoi bagagli, come se niente fosse. Non crederanno mica di passarla liscia?", dice con forza il magistrato inquirente, dottoressa Bellini "Certo che no, adesso sono qua, il portiere, il suo aiutante e il cameriere.Stiamo facendo un identikit di quel signore.Il direttore
      dell'hotel era fuori della Grazia di Dio, ma, purtroppo sono cose che succedono...", rassicura il commissario Bellon
      "E il suo caro amico Bonfante, da Roma cosa le ha detto sul Foggini?".
      "Ben poco, per ora. E' stato nel suo appartamento dove viveva da solo, ma sembra che qualcuno lo abbia da poco
      attentamente ripulito, infatti non hanno trovato nulla se non i mobili, ma quello in cui viveva era un alloggio
      ammobiliato in affitto al Foggini da poco più di un anno.
      Nella casa sembra proprio che nessuno lo conoscesse. Niente portineria. Luce e telefono intestati al proprietario
      dell'alloggio con il quale il Bonfante non ha ancora potuto mettersi in contatto".
      "E chi le ha detto che era un fotografo e un giocatore di golf?".
      "Del giocatore di golf l'ho detto io, anzi il dottor Stivani. Per il fotografo, lo ha riferito un condomino appassionato
      di fotografia che, avendolo incontrato un giorno, sull'ascensore con in mano una bellissima macchina fotografica, gli
      avrebbe fatto qualche domanda; in quell’occasione il Foggini gli avrebbe detto di essere un fotografo professionista".
      "Però ciò non ci dà la certezza che corrisponda al vero".
      "Sicuramente, ma il Bonfante si sta dando da fare e spero che presto ci sappia dire qualcosa di più. Quando avremo
      l'identikit del tizio che ha saldato il conto del Concord, cercheremo di scoprire chi è, perchè, ritengo, possa essere
      collegato con l'omicidio".
      "Ok Bellon. Nell'attesa sarà bene che io vada a prepararle la cena, l'aspetto per le otto, se avrà qualche novità ne
      discuteremo a tavola. A più tardi". A cena conclusa, mentre sul tavolo compare un cesto di frutta fresca, la padrona
      di casa, la dottoressa Bellini si informa del gradimento
      "Promossa, come cuoca?". "Alla grande, dottoressa. E, se mi consente, non solo come cuoca", si fa leggermente galante
      il commissario.
      "Cosa ne direbbe Bellon, se quando non siamo sul lavoro, mi chiamasse Giovanna e non dottoressa, o i suoi principi
      glielo impediscono?".
      "Assolutamente no, ma, per reciprocità, lei deve chiamarmi Andrea".
      "Ok, Andrea. Sul Foggini sa qualcosa di nuovo?".
      "No, ma mi ha telefonato il Bonfante da Roma. Ha bisogno di parlarmi di persona. Arriverà domani mattina con il volo
      delle 11,30. Andrò a prenderlo a Caselle. Mi auguro che non sia solo una scusa per andare a visitare Torino o a fermarsi
      per la partita di calcio".
      "Per telefono non le ha anticipato nulla?", ritorna professionale e formale il magistrato.
      "No. Ha detto solo che vuole parlarmi di persona. Ma penso si tratti del Foggini, anche se non capisco tanta
      riservatezza, a meno che...". "A meno che?".
      "In un qualche modo c'entri il Prete". "Il Prete?".
      "E sì, non so se si ricorda, devo avergliene già parlato. Quando ero ad Agrigento ho inciampato in questo fantomatico
      Prete, un misterioso e potente malavitoso romano che, con il Bonfante, abbiamo invano cercato di individuare". "E
      come potrebbe entrarci con il nostro caso?".
      "Non lo so, ma potrebbe essere anche questa una storia...".
      "Di mafia? Andiamo commissario, la mafia ormai per lei è diventata un'ossessione. Siamo a Torino, non nella sua bella
      Sicilia. Se l'è scordato?".
      "No, e forse la mafia e il Prete non c'entrano nulla, ma non crederà mica che la malavita organizzata non ci sia anche
      qui a Torino. Bardonecchia o i più recenti fatti portati alla luce dal processo sui fatti capitati nella periferia di Torino,
      verso Leinì, non le dicono nulla?".
      "Va bene, va bene. Per questa sera lasciamo perdere. Ne riparleremo dopo il suo faccia a faccia col Bonfante”. La
      dottoressa Bellini ritorna ad essere confidenziale?
      “Commissario, anzi Andrea, bevi qualcosa?".
      "Come no. Un lucano, se ce l'hai". Accetta, con un sorriso, mentre quella bella serata va a concludersi. Il mattino dopo
      all’aeroporto di Caselle.
      "Fatto buon viaggio?". "Ottimo. Cosa ne diresti se invece di andare in Commissariato, andassimo a mangiare qualcosa
      in un posticino tranquillo dove sì possa anche parlare più liberamente. Dopo dovrei ripartire subito. A Roma
      mi aspettano".
      "Magari senza microfoni e orecchie indiscrete?". "Esattamente, caro Bellon".
      "Conosco un locale qua vicino. E' alla buona, ma si mangia bene e poi in cinque minuti posso riportarti all'aeroporto.
      Ma dimmi, Bonfante, perchè tutti questi misteri?".
      "Per via del Prete. Ti ricordi dell'agente Cardoso?. Quando c'è di mezzo lui, non mi fido più di nessuno…". "Quindi, ci risiamo. Si tratta del Prete? Ma anche del Foggini, o sbaglio?".
      "No, caro Bellon. Come ti ho detto ieri al telefono, a casa di questo Foggini non abbiamo trovato nulla. Era stata
      accuratamente ripulita. Il che mi ha insospettito. Poi quella storia sul fotografo professionista non stava in piedi. Nel mondo dei paparazzi nessuno lo conosce e allora ho risentito quel condomino a cui il Foggini avrebbe parlato sull’ascensore. Mi ha confermato la sua dichiarazione. Mi son dato da fare con i nostri informatori. L’unica cosa che ho saputo è che il Foggini aveva a che fare con il racket. E chi controlla il racket a Roma?". "Il Prete".
      "Esattamente. Ma su questo punto i nostri informatori non mi hanno detto altro.. proprio come l'altra volta".
      Intanto i due sono arrivati davanti alla trattoria.
      "Ti va bene questo localino?".
      "Direi di sì. Mi sembra la classica “bettola” di campagna".
      "In effetti lo è".
      "Cosa capijoijsgnor?" – chiese l’oste panciuto con un caldo accento torinese, dopo averli fatti sedere ad un tavolino, un po' appartato, con tovaglia a quadretti bianchi e rossi e sedie impagliate..
      "Ci chiede cosa vogliamo mangiare" traduce Bellon.
      "Lo avevo immaginato”. Consigliami tu caro amico, risponde Bonfante
      "Ok. Due fettine di vitello tonnato, dei tajarin al burro e salvia e, se l'avete, un po' di fritto misto. Ti può andare bene?".
      "Come no, ma non è un po’ troppo?" - dice Bonfante.
      "E da beive?".
      "Na butaédDossèt, anzi no, un buon Barbaresco".
      "Va bin. Ca fasachiel".
      "Veniamo a noi, Bonfante. Dunque il Foggini era un esattore. A dire il vero, non me lo vedo tanto in questi panni".
      "Hai ragione, Bellon. Ma lui non era uno di quelli che, per farsi pagare, usano, nel migliore dei casi, le mani. No, lui era di quelli che stipulano i contratti. Gli esattori sono altri. Manovalanza".
      "Quindi il Foggini non era un semplice picciotto".
      "No. Tant'è che poteva permettersi un alloggetto ammobiliato con gusto, da oltre un migliaio di euro al mese, una Bmw e giocare a golf all'Olgiata. Per inciso, abitava da diversi anni a Roma, ma era torinese". " Cosa altro hai saputo di lui?".
      "Altro che fotografo, non era neppure appassionato, di foto. Gli piacevano le donne, quelle formose, specialmente. Ne abbiamo individuate un paio, ma non ci han detto nulla di interessante. Non aveva veri amici, ma solo un sacco di conoscenti che di lui sanno poco o nulla, se non che era un tipo simpatico, distinto e a mezzi.".
      "E quelli con cui stipulava contratti?".
      "Ne abbiamo trovati tre. Dicono che ispirava fiducia. Era un gentile. Ti presentava la cosa in modo convincente. I guai venivano dopo se non rispettavi gli impegni. Ma lui non lo si vedeva più".
      "Come lo collega con il Prete, solo per via del racket?".
      "No, non solo. Anche il fatto che il suo appartamento è stato così diligentemente ripulito, mi dice che, dietro, ci deve essere qualcuno che conta".
      "Non han lasciato nulla?".
      "Sino ad un certo punto sono stati di una accuratezza incredibile, poi, forse, hanno trovato quello che cercavano e allora sono stati, per il resto, un po' più sommari, tant'è che in una valigia, chiusa in un armadio, abbiamo trovato una bella
      macchina fotografica ma senza alcuna immagine nella memoria.
      Mi sembra strano”. Tu pensi che cercassero qualche foto particolare?”.
      “Penso proprio di sì e chissà che non ce ne fosse una anche del Prete”.
      “Se fosse così, potrebbe anche essere il movente dell’omicidio”.
      “Ma bravo Bellon. Supponiamo che, non so come, il Foggini sia riuscito a fotografare il Prete e poi lo abbia ricattato o
      intendesse farlo e il Prete ne sia venuto, in qualche modo, a conoscenza o, forse meglio, lo abbia sospettato. Con
      qualche scusa lo manda a Torino ad incontrare qualcuno. In sua assenza fa perquisire il suo alloggio. Trovano la foto e
      lui ordina ai suoi compari torinesi di farlo fuori”. “Sì, potrebbe essere andata così. Dovremo cercare i riscontri”.
      “Certo. Io mi darò da fare a Roma, tu fallo qua. Per parlarmi chiamami a casa, questo è il mio numero. Io farò lo stesso
      con te”. “facciamo cosi, questo è il mio numero; ma secondo te come può essere finito nel giro un tipo come il Foggini?”.
      “Da ragazzo subì un arresto per uno scippo e finì al Ferrante Aporti di Torino, dove allora abitava. Lì deve aver fatto
      delle conoscenze...”.
      “Al riformatorio? Dalle impronte sembrava un incensurato”.
      “Quelle dei minori, se, una volta rilasciati, rigano diritto, non rimangono negli archivi”.
      “Così lui deve aver rigato diritto, almeno per un po’”.
      “Ritengo di sì. Poi il Prete però potrebbe aver avuto bisogno di qualcuno a Torino e lo avrà fatto contattare per qualcosa
      di poco conto, offrendogli una bella somma, tanto per metterlo alla prova. Il nostro, che doveva esser tutt’altro che un
      cretino, avrà superato l’esame e così avrà avuto altri incarichi, condotti sempre in modo soddisfacente, tanto che, non
      essendo più utile a Torino, il Prete può aver deciso di farlo andare a Roma, affidandogli quell’incarico che praticava
      abitualmente”. “A Torino potrebbe avere dei parenti”.
      “Forse sì. Ma con loro potrebbe aver rotto i ponti, perlomeno da quando si è trasferito a Roma. Non abbiamo trovato
      traccia di suoi contatti con Torino”.
      “Mi sembra già di sentire cosa ci diranno. Ipotesi interessante, ma senza riscontri e senza prove”.
      “ E non li troveremo mai, se qualcuno dovesse informare il Prete dei nostri sospetti”.
      “Tu pensi che abbia, al nostro interno, degli informatori?”.
      “Non lo penso, ma lo temo. Agrigento docet”.
      “Starò attento, ma del mio pm posso fidarmi ciecamente e così di almeno un paio di miei stretti collaboratori. Da solo
      potrei fare ben poco. Di loro mi fido. Anche tu, a Roma, potrai contare su qualcuno o no?”. “Sì, guai se non fosse così”.
      “Ma se per una sua possibile foto, il Prete ha messo in moto tutto sto marchingegno, adesso, con quelli che potrebbero
      averla ritrovata, cosa diavolo farà?”.
      “I casi sono almeno due: o sono elementi di cui può fidarsi ciecamente o troverà il modo di farli fuori anche loro”. “A va
      tut bin?” - li interruppe l’oste.
      “Tutto bene, anzi ci porti il conto e due caffè” risponde Bellon, che rivolto al collega romano dice “Spero tu abbia un
      buon ricordo di questa nostra Piola. Per il tuo volo abbiamo ancora un po’ di tempo. Se non ti dispiace, vorrei
      ricapitolare quanto ci siamo detti ed ho la sensazione che stiamo mettendo le mani su qualcosa di grosso”.
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[Rubrica] Libri e cinema quando la fedeltà all’opera non è tutto

    • Libri e cinema
      quando la fedeltà all’opera non è tutto

      «Letteratura e cinema sono due veicoli diversi
      per storie e messaggi; hanno linguaggi differenti.»

      Credo che ogni lettore abbia sognato almeno una volta di vedere il proprio libro preferito prendere vita e trasformarsi in un film; guardare sul grande schermo quei personaggi e quelle storie che tanto ci hanno appassionato quando ancora erano fatte di carta e inchiostro. Personalmente mi trovo spesso ad immaginare quale volto il protagonista potrebbe avere, quale musica dovrebbe accompagnare le sue gesta.

      È capitato diverse volte che questo sogno si avverasse, ma non sempre il risultato è stato ciò che mi aspettavo; a volte i sogni sono diventati veri e propri incubi su pellicola. Il punto di contatto fra un romanzo e la trasposizione cinematografica è la fedeltà di quest’ultima all’opera originale, discostandosi troppo si rischia di dar vita a porcherie, ma non sempre. Credo che un esempio degno di entrare negli annali delle trasposizioni orribili sia “Eragon”, tratto dal romanzo di Christopher Paolini: onestamente tutto ti aspetti fuorché vedere un terrible drago trasformarsi in una sorta di pennuto con le piume e la voce di una conduttrice televisiva. Alcune volte però anche la totale attinenza rischia di non essere chissà quale capolavoro e mi sento di citare “Hunger Games: il Canto della Rivolta pt.1”, di fatto un film in cui non succede nulla. Non è un brutto film, ma basarsi sulla prima parte di un libro in cui per metà non capita molto non può portare a una pellicola particolarmente coinvolgente. La fedeltà quindi non è tutto, anzi. Mi capita molto spesso di leggere online commenti negativi su trasposizioni a mio avviso molto belle, dovuti in genere al fatto che la storia non segua per filo e per segno la controparte cartacea. In tutta onestà non concordo quasi mai con questi commenti, anzi, li trovo ridicoli quando portati all’estremo: se un personaggio non pronuncia la stessa battuta nello stesso momento in cui è stata pronunciata nel libro, alcuni si stracciano le vesti e gridano allo scempio.

      Credo sia semplice, ciò che funziona su carta, non necessariamente funziona al cinema. Letteratura e cinema sono due veicoli diversi per storie e messaggi; hanno linguaggi differenti e alcune volte incompatibili, e spesso si rivolgono a un pubblico estremamente diverso. Entrambi raccontano la medesima storia, ma lo fanno in maniera diversa, e questo non significa che uno sia migliore dell’altro. Sarebbe come chiedere cos’è più buono fra la pizza e la cioccolata, o se si preferisce dormire o il colore giallo. Sono confronti privi di senso perché fatti fra cose che per natura non sono paragonabili, in quanto differenti. Come si può pretendere, ad esempio, che i pensieri di più personaggio siano riportati fedelmente senza inserire decine di voci fuori campo, dando vita in pratica ad un audiolibro con immagini? Non fraintendetemi, non sto affatto dicendo che un film debba stravolgere l’opera da cui è tratta, anzi. Sono il primo a trasformarmi in una furia con la bava alla bocca quando ci sono cambiamenti o tagli privi di senso, ma è proprio qui il punto: modifiche prive di senso. Eliminare un personaggio fondamentale per inserirne un altro inutile, questo mi fa imbestialire. Stravolgere il carattere di un personaggio inutilmente - come accadde al personaggio di Faramir nella trilogia de “Il signore degli Anelli”, per fare un esempio - questo sì che mi infastidisce. Le motivazioni sono semplici, si tradisce l’opera originale per come è stata pensata, se ne violenta l’anima ed il messaggio più profondo. È’ come prendere il libro, stracciarlo e bruciarne le pagine. Se invece i registi e gli sceneggiatori sono capaci di dare una veste accattivante e coinvolgente a quella storia, pur cambiandone della parti e“infiocchettandolo e impacchettandolo”per renderlo adatto alla sua veste cinematografica, ben venga! Se invece non ne sono in grado, sarà stata un’occasione sprecata, nulla di più. Preferirò sempre e comunque un libro ad un film, questo è certo, ma come non mi stancherò mai di ripetere, un brutto film non può rovinare un libro. Non lo cancella e non lo fa scomparire. Se abbiamo amato, se abbiamo riso, pianto, e ci siamo emozionati grazie ad una storia, questa sarà sempre sulle pagine dove l’abbiamo letta la prima volta, pronta a stupirci ancora una volta.

      Ci si legge.
      Marco Massa
      Alucard Belmont
      (www.marcomassa.me)
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[Rubrica] Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte II

    • Hunger Games:
      Il canto della rivolta - Parte II

      Il 19 Novembre uscirà nelle sale italiane “Hunger Games: Il canto della rivolta - Parte II”, capitolo finale di quello che negli ultimi anni è diventato un vero e proprio fenomeno mondiale, fra una rivoluzione per cui combattere, intrecci amorosi e un futuro dispotico non così impossibile da immaginare.

      Tratto dai romanzi di Susanne Collins, il film di prossima uscita porterà sullo schermo le vicende narrate nella seconda metà del terzo libro, ossia le ultime fasi della ribellione della giovane protagonista, Katniss Everdeen, ormai in aperto contrasto con la dittatura di Capitol City. Qui di seguito vi darò almeno 3 buone ragioni per cui non dovreste perdervi il film di prossima uscita, e perché dovreste recuperare e leggere i romanzi.

      1) Storia coinvolgente. Katniss Everdeen e Peeta Mellark, i protagonisti vivono in un futuro dispotico dove anni di guerre e distruzioni hanno ridotto quelli che un tempo erano gli U.S.A. in una dittatura oppressiva e sanguinaria. La popolazione vive in Distretti dai quali ogni anno una giovane fanciulla e un ragazzo vengono scelti per partecipare agli Hunger Games, un reality con un unico scopo: sopravvivere. Al termine dei giochi ci potrà essere un solo vincitore che sarà ricoperto di ricchezze; questo significherà però eliminare tutti gli altri concorrenti, altri ragazzi, mentre la Capitale e l’intera nazione sta a guardare il tragico spettacolo. Nel corso dei tre romanzi non solo Katniss dovrà sopravvivere ai giochi, diverrà suo malgrado il simbolo della rivoluzione contro la dittatura.

      2) Tematiche importanti. Aldilà delle avventure e degli intrecci amorosi, due sono a mio avviso le colonne portanti di questa saga. Il sacrificio: Katniss non viene scelta per partecipare agli Hunger Games, si offre volontaria al posto della sorella più piccola. Nonostante sia consapevole che le possibilità di sopravvivere alla brutalità dei giochi siano scarse, si offre senza esitare. Si offre per amore; quell’amore incondizionato che è il solo motore in grado di spingere al sacrificio sommo, a mettere in pericolo ciò che di più prezioso si ha: la vita. Ecco, Katniss, così come Peeta dimostreranno che spesso c’è qualcosa di ancora più importante della propria sopravvivenza: la vita di chi si ama. La ribellione: a partire dal secondo romanzo e dal secondo film, l’attenzione si sposta su chi tira le fila di quel reality tanto mostruoso quanto amato dai cittadini della capitale: una dittatura che manda al macello ragazzini indifesi per il divertimento delle classi agiate, e per schiacciare la popolazione sotto il giogo della paura. Gli avvenimenti narrati mostreranno come un gesto all’apparenza insignificante possa trasformarsi nel simbolo di una ribellione. Come a volte basti l’azione di una sola persona per risvegliare gli animi e le coscienze, come a volte la possibilità di cambiare il mondo che ci circonda e ci opprime sia nelle nostre mani. Katniss non è una ribelle per scelta, eppure basta la sua scintilla per far divampare il fuoco capace di sciogliere i lacci di paura e apatia che tenevano incatenati gli abitanti di una nazione intera.

      3) Critica sociale. Sarò onesto, non sono certo che l’intento dell’autrice fosse ciò che io ho letto nelle sue righe. Eppure per me è naturale accostare gli spettatori di questo crudo reality a coloro che ogni giorno guardano passivamente le tragedie altrui senza fare nulla, o peggio, considerandole alla stregua di un film. Che sia il naufragio di un barcone di profughi, o le violenze sistematiche e ripetute
      ai danni di emarginati e bisognosi. Che sia la moglie picchiata dal marito o il senzatetto deriso e portato allo stremo e alla fame. Così come gli spettatori dei giochi nella loro inedia sono tanto colpevoli quanto gli organizzatori, così chi può fare del bene, chi ha la possibilità di agire e sta a braccia conserte è tanto colpevole quanto chi il male lo compie in prima persona. Non perdete l’occasione di leggere questi tre romanzi, e non perdetevi l’uscita del nuovo film; meritano davvero.

      Ci si legge.
      Marco Massa
      Alucard Belmont
      (www.marcomassa.me)
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I Racconti, la Memoria... VIA GOVERNOLO 4

    • I Racconti, la Memoria...
      VIA GOVERNOLO 4

      articolo di Enrica Pavese

      Mi chiamo Enrica Pavese, ho 80 anni, abito in via Governolo 4 e volevo farvi conoscere un po’ la storia della casa dove abito e spiegarvi le foto che vedrete allegate.
      La casa è stata costruita nel 1902 e pertanto è passata ‘casa d’epoca’. Vedrete porte e balconi lavorati, a fianco delle finestre. Si notano scolpite le teste dei cavalli e sono state fatte perché l’avevano chiamato “la casa dei cavalli”, in quanto a quell’epoca i miei nonni Pavese avevano le prime carrozze a cavalli e noterete anche che sul portone c’è una scritta: “Stabilimento vetture”. Le foto sono state scattate nel 1910 con mio padre seduto su un gradino della macchina, le sue sorelle ed i miei nonni e altre due persone sono sui sedili. Mio padre aveva allora 14 anni e mi raccontava che le macchine erano la sua passione. Poi appunto i coniugi Pavese (miei nonni) furono i primi a fare un servizio di taxi. In seguito, si sa, gli anni passarono. Io nacqui nel 1935 in seguito al matrimonio tra mio padre e mia mamma nel 1933. Vennero ad abitare nella casa sempre tenuta in ottimo stato ed affittata ad altre persone. Le teste dei cavalli sono sempre state notate e tenevano compagnia alla casa. Poi purtroppo arrivò la guerra. Nel novembre tra il 12 e il 14.11.1942 la casa venne bombardata mentre inquilini e proprietari eravamo in cantina. Una cantina per fortuna resistentissima con muri solidi come quelli fatti a quei tempi. Fummo tutti salvi. La bomba colpì però completamente la facciata della casa e pertanto le teste dei cari cavalli andarono in briciole.

      Sfollamento generale, con grande tristezza. Fortuna volle che le scale della casa resistettero benissimo e tutt’ora si possono vedere nella loro autenticità.
      Molti inquilini si sistemarono alla meno peggio verso il cortile. Nell’interno del cortile si trova tutt’ora una casetta a due piani ancora come all’epoca passata, è del 1894, la prima casa dei miei nonni e dove nacque mio padre; dove ora ci sono dei garage, all’epoca era occupata dai cavalli e poi dai primi taxi.

      La casa è in perfetto stato ed occupata da attuali inquilini.
      Però io, mio padre, mia mamma, i miei nonni (papà e mamma di mia mamma) sfollammo a Rosta, in val di Susa, vicino a Rivoli e vi restammo fino al 1945 quando terminò la guerra.
      Poi gli anni naturalmente passarono come per tutti, un po’ belli, un po’ brutti o tristi. Mio padre per rifare la casa vendette tutto ad un’impresa e ci riservammo il nostro alloggio al 1° piano dove abito tuttora. Però vi voglio raccontare un fatterello, che ci crediate o no, quando, uscendo dal rifugio dopo il bombardamento, mio padre andò a vedere in che stato era l’alloggio. In camera di mia mamma c’era un buco enorme nel soffitto. Sulla parete sopra il letto era si-stemato un bellissimo quadro della Consolata di Torino, non c’era più, forse vo-lato via dallo spostamento d’aria chissà in che stato, forse fatto a pezzi o bruciacchiato. Invece, uscendo nella strada trovammo il quadro intatto, senza alcuna rovina, posato sopra il buco che si era formato nella strada dove era scoppiata la bomba. Che ci crediate o no è la verità e l’ho visto con i miei occhi.

      Ricordo sempre con gioia un piccolo amorino che mio padre fece porre all’inizio della scalinata, quando sono nata io. Oggi questo angioletto è stato tolto a causa dell’installazione dell’ascensore. la dolcezza del ricordo suscita anche tanta nostalgia.
      Forse mi sono dilungata un po’ troppo ma perché ho passato, e spero ancora per un po’, in questa casa tanti e tanti cari ricordi. Belli e brutti.Grazie a tutti.

      Enrica



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Il contratto di apprendistato

    • Il contratto di apprendistato

      articolo di Bruno Ferrero

      Nel novembre del 1851, Don Bosco scrive e fa firmare uno dei primi contratti della storia tra padrone e apprendista. Don Bosco mette il dito su molte piaghe.
      Alcuni padroni usavano i giovani apprendisti come servitori e sguatteri. Egli li obbliga a impiegarli solo nel loro mestiere. Si preoccupa della salute, del riposo festivo e delle ferie annuali. Ed esige uno stipendio “progressivo” (Memorie Biografiche IV, 295-297).

      Non dimenticherò mai quel giovane prete che infuse un’anima di dignità nel mio fragile corpo di carta. Ero un normale foglio di carta sul tavolo del signor Carlo Aimino, maestro vetraio e padrone di un laboratorio di vetreria. Ero rassegnato al mio destino: diventare una fattura.
      Mi illuminavano a tratti i bagliori rossi del forno in cui s’arroventava la pasta di vetro. Vedevo gli operai soffiare nei lunghi tubi per dar forma a bottiglie, fiaschi, portafiori, soprammobili modellando velocemente le masse di vetro incandescente.

      Mi piacevano soprattutto le grosse “lacrime” luccicanti per i grandi lampadari a goccia dei signori.
      Un giorno arrivò in fabbrica quel giovane prete. Lo accompagnava un ragazzo di appena dodici anni. Sentii che il padrone protestava: «Don Bosco, quello che mi propone lei è una assurdità! Nessuno fa una roba simile!». Gentile e sorridente ma irremovibile, don Bosco insisteva.
      Poi, con un gesto rapido, mi afferrò e cominciò a scrivere su di me. Aveva le idee chiare: le parole fluivano celeri e la penna correva veloce sul mio corpo di carta.

      «Il Sig.Carlo Aimino riceve come apprendizzo nell’arte sua di vetraio il giovane Giuseppe Bordone nativo di Biella, promette e si obbliga di insegnargli la mede-sima nello spazio di tre anni, i quali avranno il suo termine con tutto il mille ottocento e cinquantaquattro il primo dicembre e dargli durante il corso del suo apprendizzaggio le necessarie istruzioni e le migliori regole riguardanti l’arte sua ed insieme gli opportuni avvisi relativi alla sua buona condotta, con correggerlo, nel caso di qualche mancamento, con parole e non altrimenti; e si obbliga pure di occuparlo continuamente in lavori relativi all’arte sua e non estranei ad essa, con avere cura che non eccedano le sue forze…»
      Alcuni minuti dopo,don Bosco soffiò sulla mia superficie per a-sciugare l’inchiostro. Poi mi consegnò al mio padrone che lesse con attenzione e sospirò. Ebbi un attimo di paura. Ma alla fine il buon Carlo firmò e strinse la mano di don Bosco. Respirai sollevato.

      Ora sono inquadrato in una elegante cornice, conservato con ogni cura a Valdocco. Sono entrato nella storia come uno dei primissimi contratti di apprendistato per la difesa dei giovani lavoratori, che prima erano isolati e indifesi nelle mani dei padroni.

      Grazie a me (e soprattutto a don Bosco) un ragazzo aveva potuto apprendere un mestiere, essere giustamente retribuito e soprattutto ricevere il rispetto e la dignità di giovane lavoratore.
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Angoli della mia Città: Casa Lattes

    • Angoli della mia Città

      articolo di Gabriele Argirò
      fotografie di Pietro Clarizia

      Casa Lattes
      Corso Sommeiller 21 angolo corso Turati


      Torino è una città incredibile, protagonista da sempre della nostra storia. È una città che attira quasi magicamente una moltitudine di personaggi: generali di eserciti, santi, inventori, musicisti e filosofi, alchimisti, avventurieri e scrittori di ogni sorta, basti pensare a Edmondo De Amicis, Friedric Niet-zsche e Wolfang Amadeus Mozart che hanno lavorato e soggiornato nella nostra accogliente e misteriosa Torino.
      In questa avvolgente atmosfera, vorrei raccontarvi quel che succedeva in città all'alba del secolo scorso, quando Torino viveva un momento di grande fervore politico, sociale e culturale ed era culla di numerosi movimenti industriali, sportivi e soprattutto artistici.
      È noto che a Torino tra l'ultimo decennio del XIX e il primo del XX secolo sono state ospitate numerose edizioni delle Esposizioni Generali Ita-liane, è stata fondata la Fiat, il Torino e la Juventus; fu in questi anni che essa si pregiò del titolo di Capitale del Liberty in Italia, uno stile che l'agghinda di un'aria austera e insieme romantica, un po' parisienne. Tra le nebbie o il sole splendente Torino ricorda un'aristocratica e affascinante dama, grazie ai numerosi esempi di pregevole architettura. Di alcuni di questi voglio narrare.
      Nei pressi della stazione di Torino Porta Nuova, a pochi passi da quella che lo scrittore Giuseppe Culicchia nella sua opera “Torino è casa mia” defini-sce con simpatia “l'ingresso” di questa abitazione immaginaria, venne eretta la cosiddetta Casa Lattes, posta all'incrocio tra i Corsi Sommeiller ( intitolato all'ingegnere Germain Sommeiller che progettò il Traforo ferroviario del Frejus) e quello che veniva chiamato Viale Stupinigi, dal momento che collegava in modo diretto Palazzo Reale e Palazzo Madama, il cuore nobile di Torino, con la residenza sabauda di Stupinigi e che oggi è noto come Corso Turati ( intitolato a Filippo Turati, politico e giornalista che fu tra i primi leader del socia-lismo italiano e tra i fondatori a Genova, nel 1892, di quello che fu il Partito dei Lavoratori Italiani).
      Il complesso ancora oggi, pur nell'intenso traffico cittadino, risulta una felice e armoniosa commistione di architettura neogotica e liberty: qui si erge Casa Lattes. 


      Secondo il progetto iniziale dell'ingegnere Giorgio Lattes, essa doveva essere adibita a casa da “pigione”, oggi diremmo per affitto, edificata su un terreno di sua proprietà.
      Giorgio Lattes aveva fama di essere un ottimo ingegnere, per questo era molto stimato in città; possedeva estro e intraprendenza e volle confermerare la sua vena artistica proprio in questa costruzione, peraltro in un momento storico in cui, soprattutto in architettura, era molto difficile essere annoverati tra i “grandi maestri”.
      Il nostro buon ingegnere con caparbietà, scrupolosità e anche con una buona dose di co-raggio e di sfida verso i suoi colleghi, con una lettera datata 9 aprile 1909 indirizzata al Sindaco di Torino Secondo Frola, invia i “[...] progetti di case signorili per abitazione […] che domanda costruire sul terreno di sua proprietà […] in Torino”.
      All'epoca ogni progetto veniva valutato e deliberato dalla Commissione D'Ornato, la quale deteneva un enorme potere decisionale in materia e che influenzò non poco le scelte architettoniche del tempo. Talvolta i tempi di attesa per ricevere la concessione delle autorizzazioni erano estenuanti, ma Giorgio Lattes non si arrese ai primi dinieghi e tra un ricorso e l'altro, tra le mille modifiche richieste più o meno determinanti, affrontò con risolutezza ogni ostacolo deciso a realizzare il suo progetto.
      Solo quando le chiavi della città passarono al nuovo sindaco, Teofilo Rossi di Montelera, Giorgio Lattes riuscì ad ottenere il nulla osta e finalmente, dopo ritardi e peripezie burocratiche, i lavori ebbero inizio.
      Si sa che il permesso venne ufficialmente concesso dall'ufficio della Commissione il 24 agosto 1909.
      In seguito ad una rapida ricerca effettuata tra vecchie carte inerenti alla richiesta di permessi edilizi di inizio secolo, è emerso un esempio di modifica richies-ta dalla Commissione in data 20 luglio 1909 all'ingegnere:
      “[...] fa presente che si deve insitere sulla opportunità che la pianta del fabbricato stesso, nel lato del Viale Stupinigi, risulti parallelo all'allineamento del piano regolatore [...]”.



      Ma ora desidero concentrare l'attenzione sul risultato finale. Casa Lattes risulta un magnifico esempio di quel meltin pot di stili che era Torino a inizio '900: dai bow-window dello stile liberty, alle loro cupolette che rammentano lo stile orientaleggiante, alle decora-zioni che contornano portoni, balconi e finestre in chiaro stile tardo neogotico. Proprio questi ultimi ele-menti tipici dell'architettura gotica, ripresi e variamente interpretati, danno vita ad un complesso suggestivo che evoca grazia e raffinatezza, risultato di una perfetta definizione formale che invia a una vivacità decorativa.
      Già ad un primo sguardo d'insieme Casa Lattes rivela una particolare accuratezza nei dettagli. Vediamoli insieme.
      Il colore dell'abitazione si discosta notevolmente dalle consuete tonalità di bianco o marrone che dominano invece le facciate delle chiese e degli altri palazzi, colori decisamente marcati; in Casa Lattes il suo progettista ricerca la novità e l'unicità e dà voce al suo fervore creativo: le facciate, oggi come ieri, comunicano dinamismo e desiderio di innovazione attraverso il grigio tenue perlato del piano terra, il rosso-marrone molto chiaro con mattone a vista usato per i piani alti ed infine il colore bianco quasi marmoreo, impie-gato per i vari bow-windows e per incorniciare l'ultimo piano. Questa triade di colori è disposta armonicamente e dà la sensazione di aumentare la verticalità della casa, che infatti, pur contenendo solo cinque piani, appare molto più alto.
      La forma allungata dei portoni d'ingresso, prospicenti Corso Sommeiller, e delle finestre a sesto acuto che corrono lungo tutto il perimetro dell'abitazione, riconducono ancora allo stile neogotico.
      Notiamo con attenzione il particolare delle finestre che si affacciano sulla strada: esse sembrano aprire ampi varchi in grandi strutture “lapidarie” che le incorniciano e ne decorano in modo armonioso il contorno; gli elementi architettonici e scultorei sembrano trasformare queste finestre in antiche bifore, tipici ingredienti dello stile neo-gotico.
      Ecco poi indugiare nell'ammirare i balconi: essi sono in pietra, materiale possente e pesante; ricchi di un apparato decorativo fitomorfo, floreale (tipico del liberty), con interferenze di decorazioni circolari e a croce, quasi di carattere religioso (tipiche del neogotico), essi propongono al fruitore leggerezza ed eleganza.


      Solo un ingegnere esperto e dotato di particolare estro creativo, attento e sensibile osservatore come Giorgio Lattes poteva ottenere un risultato del genere: un'opera fresca, energica, capace di coniugare bisogno di dinamicità e insieme eleganza e ricercatezza.
      Lo spettacolo continua.
      Le porte-finestre dei balconi rimandano ancora al neogotico, contornate da sovra-strutture in pietra riccamente decorate. Piccoli gioielli che Lattes voleva condividere con gli inquilini della Casa e con i passanti, che non sarebbero mai rimasti indifferenti a tanto!
      Posiamo ora lo sguardo sui magnifici bow-windows: essi terminano con delle cupole contornate da piccole guglie che donano alla struttura un respiro orientaleggiante da Mille e una notte!
      Al contrario di quelli liberty qui i bow-windows sono più piccoli ma molto più slanciati verso l'alto; cosicchè, grazie all'espediente delle finestre “sdoppiate”, lunghe e strette, si ha la percezione di uno svettamento verso l'alto, verso il cielo, che quando è terso, immerge il passante in un'atmosfera da fiaba. I portoni di ingresso, magnifici e sobriamente intarsiati e decorati, sono in legno massiccio e a doppia anta: hanno poco o nulla di neogotico se non nella loro parte superiore. Unico elemento austero, un po' barocco nell'immagine globale dell'edificio.
      Casa Lattes si dona alla vista come uno dei risultati architettonici più notevoli in grado di rendere Torino una città caleidoscopica.
      Oggi comunque Casa Lattes continua a svolgere in silenzio il suo iniziale compito: cioè quello di essere una casa da “pigione” abitata e frequentata da varie tipologie di persone quali avvocati, notai, lavoratori in genere ma anche di inquilini che hanno fatto “propria” un pezzo di storia dell'architettura torinese.






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Via Governolo .. “fai bei sogni”

    • Via Governolo .. “fai bei sogni”

      Le riprese dovrebbero durare un totale di otto settimane,
      e vedranno protagonista Torino, città natale dello scrittore.


      Sono iniziate ufficialmente il 4 Maggio a Torino le riprese del film tratto da "Fai bei sogni" (2012) bestseller di Massimo Gramellini, edito da Longanesi. 

      Il romanzo, autobiografico, è la storia di un segreto conservato in una busta per ben quarant’anni e del percorso vissuto dall’autore per superare il dolore ed il senso di abbandono provocato dalla morte della madre quando era ancora un bambino; un viaggio interiore che parla di amore della sua perdita e del tormento che essa comporta, tanto profondo da poter segnare ed accompagnare la crescita di un bambino fino al suo diventare uomo. Il libro che ha venduto oltre un milione di copie è rimasto per oltre cinquanta settimane in cima alle classifiche nel 2012, confermandosi così un successo di pubblico con le sue 24 edizioni. È il secondo romanzo di Massimo Gramellini: nato a Torino il 2 Ottobre 1960, giornalista e scrittore nonché vicedirettore de La Stampa. Da diverso tempo ha iniziato a collaborare con la trasmissione “Che Tempo che fa”, condotta da Fabio Fazio e in onda su Rai Tre.

      Il film è prodotto da IBC Movie, Kavac Film, Rai Cinema e ADvitam, con il sostegno di Mibact, Film Commission Torino Piemonte e Fip. Fra gli attori figurano fra gli altri Valerio Mastandrea, nel ruolo dello stesso Gramellini, e BereniceBejo che interpreta la fidanzata Elisa.
      Le riprese dovrebbero durare un totale di otto settimane, e vedranno protagonista Torino, città natale dello scrittore: il primo ciak è stato ai Four Studios di via Plava, negli ex stabilimenti di Mirafiori dove è stato ricostruita la casa del protagonista e autore. Altre riprese hanno visto scelte diverse case private e, per quanto riguarda le riprese in esterna, le vie del centro, la Basilica di Superga e il quartiere Santa Rita.

      Fra i luoghi di ripresa possibili, seppur non ancora confermati, anche lo Stadio Olimpico luogo centrale di ripresa per poter raccontare i pomeriggi di Gramellini a tifare Toro con il padre.
      Nonostante non sia ancora nota una possibile data di uscita, attendiamo impazienti di poter vedere questo film che oltre a valorizzare la nostra città,porta sul grande schermo un’opera profonda, dolce e malinconica nata dalla penna e dal cuore di un nostro concittadino.
      Nell’attesa, vi consiglio vivamente di leggere il romanzo, una delle migliori opere che abbia letto negli ultimi anni; chiunque abbia perso qualcuno nella sua vita ritroverà qualcosa della propria vita in quella dell’autore, e un po’ di se stesso nei pensieri del protagonista.

      Ci si legge.
      Marco Massa
      - Alucard Belmont
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